Partiamo dall’etimologia, che fa subito una certa chiarezza: il termine bias deriva dall’antico provenzale, una delle lingue romanze sviluppate nel Medioevo, e significa – più o meno – inclinazione.
Ebbene di inclinazione – ovverosia di tendenza – si tratta.
Ad oggi, la parola in oggetto è utilizzata in diverse scienze, tra cui la statistica, la fisica e, quella che interessa a noi, la psicologia.
In Statistica sottintende un’oscillazione di valori, siano essi riguardanti la finanza o un qualsivoglia calcolo logico si voglia operare; in fisica, nella branca applicata dell’elettronica, è in uso per determinare le inclinazioni e le forze della polarizzazione.
Ma quello che a noi preme è il cosiddetto bias cognitivo: esatto, quello inerente alla sfera della psiche.
O, per farla più ampia, del comportamento.
La comunicazione e l’interpretazione vanno di pari passo con due fattori fondamentali: il dato oggettivo (la tanto cara e controversa “cosa in sé” di kantiana e filosofica memoria) e le consuetudini (una sorta di morale un po’ inselvatichita dalle brutture e deformazioni del comportamento sociale umano).
Quando un’informazione viene recepita è naturale che il nostro cervello la elabori e trasformi in un’abitudine o una norma o una qualsiasi altra forma di comunicazione: ecco fatto il pensiero.
Se questo pensiero è razionale e logico, deduttivo e pratico, si ottiene una ricezione corretta e un comportamento altrettanto omogeneo, non importa se esso devii dalle consuetudini o meno.
Se tale procedimento mentale invece si modifica, si distorce o si plasma secondo una linea di pensiero deviante – e in questo caso sì che c’entrano le consuetudini, in modo che esse possano alienare il nostro raziocinio perché “così fan tutti” o perché “si è sempre fatto così” – allora si ottiene questo benedetto bias .
Andiamo a descriverlo in modo scientifico, con termini corretti. Per dirla come fossimo un manuale di psicologia americano anni Sessanta, potremmo definire il nostro termine così: Il bias cognitivo o distorsione cognitiva è un pattern sistematico di deviazione dalla norma o dalla razionalità nei processi mentali di giudizio. Indica una tendenza a creare la propria realtà soggettiva, non necessariamente corrispondente all’evidenza, sviluppata sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro, che porta dunque a un errore di valutazione o a mancanza di oggettività di giudizio.
In sostanza, un’inclinazione del tutto soggettiva ad un determinato stimolo.
Un banale errore di giudizio.
Di questi tempi è ancora più facile cadere in un bias : percepiamo le cose in modo anomalo, confuso e troppo veloce. Abbiamo dinnanzi a noi un mondo iper digitalizzato che ci offre una mole di informazioni immensa, sovraddosata e difforme, senza soluzione di continuità; tali dati risultano inoltre superficiali, incompleti e spesso manipolati. Diventa in questo modo molto difficile per la nostra mente elaborare con razionalità e discernimento le informazioni ottenute e il recepire si mescola dunque al percepire, in funzione di una sempre maggiore soggettività della comprensione, fino a compiere delle dinamiche di pensiero del tutto distaccate dal fatto reale accaduto o presentato.
Questo per dire che non si tratta certo di un fenomeno sintomatico atto a definire una determinata patologia ma un sistemico abbandono dell’oggettività in favore di una norma sociale caotica e immersa in una grande discarica di informazioni globali.
A livello più intimo, se andiamo alla ricerca dell’io e spogliamo la questione da dibattiti politici o sociologici, è comprensibile tuttavia inserire il bias in situazioni psicologiche più complesse.
E dopo aver giustificato il genere umano – al netto dei malfunzionamenti dell’etica comune – è infine possibile stabilire che i bias cognitivi possano andare a braccetto con alcune patologie psichiatriche o disfunzioni psicologiche. I disturbi più comuni quali ansia, depressione (anche temporanea) e parafilie di vario genere contribuiscono in maniera significativa allo sviluppo di inclinazioni o distorsioni . Uno stato d’ansia o di paura sono i più classici esempi di rischio nei quali si può incorrere in errori di giudizio o valutazione, anche con conseguenze piuttosto gravi.
Allo stesso modo sono gli effetti delle più ostinate consuetudini che ci accompagnano da una vita a generare immense distorsioni dell’informazione ottenuta: la religione, la famiglia, la scuola, la buona norma , le idee politiche, ma anche questioni più banali come le sensazioni di gelosia, le opinioni di un amico carismatico, le vessazioni dei bulli; sono tantissime le implicazioni esterne che , tramite l’abitudine o l’influenza altrui, possono deviare la nostra percezione delle cose e della realtà. Possiamo convincerci di tutto e rimanere anche fermi su di una certa posizione errata per tutta la vita a causa o per concausa di stimoli esterni errati o dei quali non si posseggono i giusti strumenti.
Eh già, gli strumenti: se c’è una consuetudine che più che altro è un vizio, comune a milioni di persone e a centinaia di culture diverse, quella è l’ignoranza.
L’ignoranza genera bias semantici, comportamentali, cognitivi di ogni genere e sorta e va ad unirsi con una certa prepotenza ai vari disturbi della sfera psichica. Se tali problematiche non vengono affrontate adeguatamente, l’ignoranza prende il sopravvento e si cade in errori di valutazione che si andranno a radicare all’infinito all’interno della propria mente.
Ecco dunque, in maniera sintetica all’inverosimile e per quanto ci sia possibile nel nostro piccolo, cosa significa la tanto usata – e abusata – parola bias .
Un ironico esempio: se in rete, specialmente sui social, si trova così spesso la parola bias usata fuori contesto o con troppa scioltezza, si genera confusione; una confusione che parte da un errore di valutazione in chi scrive e che sfocia in un altro errore di interpretazione semantica in chi legge. Ecco fatto che a forza di dire bias senza consapevolezza alcuna, si genera un vero – avvilente – bias. Comico, no?